Ho provato a rimuoverlo, a dimenticare, ma è stato inutile

01.05.2025

Oggi sono passati 31 anni dalla morte di Ayrton.
Io ero in Brasile, lui invece morì a pochi chilometri da dove ero nato. Mamma me lo disse subito al telefono, quando mi chiamò quella sera dalla Romagna. A San Paolo era ancora primo pomeriggio, e il silenzio, di una delle città più vive del pianeta era terrificante.

Il Brasile piangeva, il mondo piangeva, l'Italia piangeva.
Non era giusto.
Eravamo già scossi dalla morte di Roland Ratzenberger, il giorno prima e anche lui – Ayrton – era stranamente silenzioso, turbato, anche dopo l'incidente di Barrichello. Non voleva correre, ma sentiva di doverlo fare.

Io ho sempre tifato Ferrari, a volte anche Minardi – era un amico, romagnolo come me.
Il mio cuore si divide tra Reggio e la Romagna, mA nelle corse era rosso maranello.
Quel giorno non lo dimenticherò mai. Tutto si fermò in Brasile.
San Paolo era a lutto. Le persone per strada piangevano ed anch'io, Ferrarista sfegatato, piangevo la morte del più grande.

Ho provato a rimuoverlo, a dimenticare, ma è stato inutile.
Ogni tentativo è fallito.

Per il Brasile, Ayrton era come Pelé. Al terzo posto, forse Guga Kuerten.
Parlo di idoli veri.
Ma Ayrton era speciale. È morto mentre era all'apice, nel pieno della sua gloria, nello sport che amava, portando orgoglio a un Paese che spesso fatica a riconoscersi. Rendeva felici i brasiliani ricchi, sì, ma soprattutto dava riscatto ai poveri. Proprio come Pelé. Portava la più bella bandiera del mondo in evidenza.

Ayrton Senna voleva solo correre. E vincere.
È questo il destino dei grandi: non possono fermarsi.
E lui era grande. Campione. Leggenda.

Non poteva fermarsi anche se lo avesse voluto.

Era un grande campione, un grande uomo, la sua vita sportiva, le paure, i dubbi, la solitudine di chi lotta per diventare il migliore. 

Narrare le sue gesta e la sua vita, intensa e umana, non solo come un fenomeno del volante, ma come un uomo fragile e determinato, capace di correre per qualcosa di più grande.

Aveva forse trovato finalmente l'amore ed era profondamente preoccupato con la vita degli altri, e il suo ultimo weekend, a Imola, fu segnato da presagi e dolore. Ma corse lo stesso. Per Roland. Per il Brasile. Per i bambini che lo guardavano come un eroe.

E quel gesto – la bandiera austriaca nella macchina, per sventolarla in caso di vittoria – racconta tutto.

Per lui rinunciare a sventolare la sua di bandiere era un segnale di affetto e passione, amicizia e preoccupazione.

Senna correva per un motivo, sempre. E forse è per questo che ancora oggi, dopo 31 anni, il suo nome commuove, unisce, ispira.
Perché era un vincente buono. Un'anima in cerca di perfezione, forse irraggiungibile, ma sempre lì, a un passo. E noi con lui.

Grazie Ayrton dopo 31 anni guardare le tue gesta, mi commuove e mi fa ricordare a una F1 meno sicura, ma piena di grandi valori e grandi piloti, come te.

Andrea Ruggeri