La Calabria non è solo fuga: ma chi ha il coraggio di restare?

La Calabria non è solo fuga: ma chi ha il coraggio di restare?
di Masaniello Pasquino
Ho letto con attenzione "Fuga dalla Calabria", l'articolo apparso su StrettoWeb e tratto da Business Insider, che racconta la parabola di una famiglia americana trasferitasi a Mormanno per fuggire le periferie americane, e poi fuggita di nuovo, stavolta dalla Calabria stessa. È una storia che a prima lettura sembra confermare lo stereotipo di una terra bellissima ma incapace di trattenere chi arriva o chi vi nasce.
Eppure, da calabrese di ritorno dopo anni all'estero, sento il bisogno di dire che non è (solo) una questione di adattamento degli altri al nostro territorio. È, soprattutto, una questione di come noi trattiamo gli altri, e forse peggio ancora, di come trattiamo noi stessi e chi prova a restare.
Perché non possiamo limitarci a dire: "Non si sono adattati". Non basta. Non possiamo continuare a pensare che il problema sia sempre altrove: nell'americano che non capisce la nostra burocrazia, nel brasiliano che non sopporta la lentezza, e la mancanza di musica e divertimento, nel milanese che non sa vivere senza i servizi di una grande città. Forse, il problema è che noi per primi abbiamo smesso di pretendere di più, e che ci siamo costruiti un comodo alibi dietro le bellezze dei nostri paesaggi.
Una solidarietà di facciata
In Calabria – e mi ci metto dentro anch'io, da figlio di emigrati e "ritornato" da pochi anni – amiamo definirci un popolo solidale. Ci piace raccontarci che nei nostri borghi ci si aiuta, che i vicini di casa diventano famiglia, che l'accoglienza è nel nostro DNA. Ma se guardiamo più da vicino, la realtà è più complessa e spesso più dura e non corrisponde a questa analisi:
- Chi arriva (sia straniero, emigrato di ritorno, o un calabrese "forestiero" da un altro paese) non sempre trova mani tese, ma spesso sguardi sospettosi.
- Nei negozi il sorriso non è scontato, nelle strade il rispetto non è una regola. Chi prova a innovare viene guardato con diffidenza, quando non apertamente ostacolato. Gli stipendi per i nuovi arrivati, poi, una vera miseria.
- La comunità è spesso ristretta ai legami di sangue: famiglia e poco più. Il concetto di "bene comune non esiste più".
E allora sì, forse entrambe le storie sono vere: per chi arriva da fuori la Calabria è un sogno da vivere, per chi ci è nato spesso un sogno da cui fuggire. Ma la domanda resta: deve davvero essere così? O abbiamo semplicemente smesso di pretendere che sia diverso?
La verità è che non possiamo più raccontarcela con il mito della "gente calorosa" e della "solidarietà di paese" se, nei fatti, chi arriva da fuori viene lasciato solo e chi prova a restare si sente tradito. Serve un cambio di passo culturale: un senso di comunità che non sia solo folklore, ma pratica quotidiana; amministratori che non liquidino le critiche come "sterili polemiche", ma le ascoltino come richieste legittime; cittadini che vedano l'altro come una risorsa e non come un intruso.
Forse è arrivato il momento di smettere di aspettare che siano "gli altri" a risolvere. Di guardare in faccia le nostre mancanze, senza retorica e senza pietismo. Perché la Calabria non diventerà mai un rifugio sicuro né per gli americani né per noi stessi se prima non smette di essere, per troppi, una gabbia invisibile.
La fuga continua, in entrata e in uscita. Ma non è forse giunto il tempo di restare – e di cambiare?
Menestrello Pasquino