Educati all’indifferenza: quando il dolore diventa contenuto

29.06.2025
Jabalia - Reuters
Jabalia - Reuters

Di fronte alla sofferenza umana, l'indifferenza non è solo un fallimento morale: è il segno che stiamo diventando altro. Meno umani. Più simili alle macchine che ci stanno educando a sentire meno, a pensare in termini di calcolo. A voltare lo sguardo, senza nemmeno più provare vergogna.

Oggi basta aprire una qualsiasi piattaforma social per trovarsi davanti a immagini che, in un altro tempo, ci avrebbero spinto a staccare gli occhi, a riflettere, magari a scrivere, a intervenire. Adesso no. Adesso si "scrolla".

C'è un video, diventato virale su TikTok. Si apre su un campo profughi. Bambini coperti di polvere, occhi svuotati di luce. Corpi esanimi tra le macerie, la disperazione masticata in silenzio da madri che sembrano aver già pianto tutte le lacrime. Ed in mezzo la pubblicità scelta dall'algoritmo sulle tue necessità. Milioni di visualizzazioni. Una pioggia di cuoricini, commenti spezzati da qualche emoji triste, e poi via: swipe up. Il successivo video è un tutorial di make-up. Ritorna la musica, l'algoritmo ringrazia. Tutto normale. 

Ecco dove siamo. Ecco il futuro che stiamo costruendo, giorno dopo giorno, clic dopo clic.

Viviamo in un'epoca in cui la tragedia umana è diventata intrattenimento, si consuma in streaming, tra un algoritmo e l'altro. Una morte vera, un dolore autentico, trasformati in "contenuto": qualcosa che si guarda, si consuma, si dimentica. Dove la morte di un bambino – reale, concreta, ingiusta – può generare traffico, visibilità, engagement. Può diventare un'occasione per crescere nel ranking. Monetizzabile.

Il problema non è solo cosa ci mostra l'intelligenza artificiale. Il problema vero è cosa ci sta facendo diventare. Quali circuiti neuronali stiamo spegnendo, quali barriere morali stiamo smantellando mentre lasciamo che sia un algoritmo a decidere cosa vale la nostra attenzione. E il rischio peggiore non è che ci abituiamo alla violenza: è che cominciamo a non vederla più come tale. A percepirla come parte del flusso. Intrattenimento estremo.

L'indifferenza non è una scelta consapevole. È il prodotto di un lento addestramento. Non nasce in un giorno, ma viene coltivata. L'IA non ci impone cosa provare, ma ci guida dolcemente verso un mondo dove le emozioni sono addomesticate, ridotte a reazioni rapide, brevi e condivisibili. Dove non si contempla la possibilità di restare muti di fronte a una tragedia: bisogna commentare. Bisogna reagire. Fare qualcosa, purché veloce.

Ciò che manca è lo spazio. Il tempo. Il silenzio. Manca l'umano.

Una tragedia non è mai solo un fatto: è un'urgenza morale. È uno specchio. E noi, oggi, non ci riflettiamo più in quello specchio. Guardiamo, ma non vediamo. Scorriamo, ma non restiamo. E in questo continuo movimento verso il nulla, perdiamo ogni capacità di profondità.

Potremmo anche provare a invertire la rotta, ma per farlo dobbiamo partire da noi. Da ognuno di noi. Perché la disumanizzazione non è un progetto imposto dall'alto: è un processo che attraversa le nostre dita ogni volta che scorrono distrattamente uno schermo. È un virus che si annida nella stanchezza, nella saturazione, nella fretta.

Chi siamo diventati, se possiamo cenare guardando un massacro in loop? Se riusciamo a scrollare su un bambino ferito e poi sorridere alla clip successiva?

Forse è tempo di riprenderci il diritto di restare feriti. Di indignarci. Di provare vergogna, se necessario. Perché la vergogna è ancora un segnale di vita. Di coscienza.

E di umanità.

Andrea Ruggeri