Quando la Giustizia ha fretta
'U Riggitanu
Rubrica Giustizia & Memoria
Titolo: Quando la giustizia ha fretta: Reggio Calabria in cima alla classifica degli errori giudiziari
di Andrea Ruggeri

C'è un momento, in ogni vicenda giudiziaria, in cui il dubbio smette di essere un privilegio per l'imputato e diventa un dovere collettivo. E se esiste una città dove questo campanello d'allarme dovrebbe suonare forte e chiaro, quella è Reggio Calabria: sede di una Procura e di una Corte d'Appello tristemente ai vertici nazionali per errori giudiziari e risarcimenti statali per ingiuste detenzioni.
Sì, proprio qui, tra il Castello Aragonese e la punta dello Stivale che guarda la Sicilia, si registra uno dei più alti indici di condanne errate, processi ribaltati, vite spezzate e risarcimenti da milioni di euro. Mentre le toghe si rincorrono in un sistema sempre più schiacciato tra fretta e pressioni, si dimentica spesso che la giustizia, quando diventa impaziente, può diventare il peggior nemico dei cittadini.
Il caso #Garlasco – con la repentina condanna e carcerazione di Alberto Stasi – è solo l'ennesima fotografia sfuocata di una giustizia che sembra voler chiudere i conti più che cercare la verità. Non è questione di colpevolezza o innocenza, ma di metodo, di tempo, di garanzie. E di una domanda che brucia sotto la pelle: quanto siamo davvero al sicuro da un errore giudiziario?
Numeri che fanno tremare
Dal 1991 a oggi, oltre 31.000 persone in Italia hanno subito ingiuste detenzioni. Mille ogni anno. Reputazioni distrutte, famiglie annientate, vite spezzate. E lo Stato ha speso centinaia di milioni in risarcimenti. Ma dietro quei numeri ci sono nomi e volti che dovremmo ricordare.
Come Giuseppe Gulotta, muratore siciliano, che ha scontato 22 anni per un duplice omicidio mai commesso, sulla base di una confessione estorta con la tortura. Come Enzo Tortora, il celebre volto televisivo, arrestato nel 1983 per un'accusa infondata di traffico di droga e camorra. E ancora Beniamino Zuncheddu, pastore sardo, detenuto per 33 anni in seguito a un riconoscimento manipolato e indagini fallaci. E i casi reggini? Ce ne sono, eccome. Alcuni insabbiati, altri in attesa di risarcimento, molti con il marchio indelebile del sospetto.
Una giustizia stanca, frettolosa, pericolosa
Nel nostro Paese, e in particolare nel Sud, la giustizia ha spesso il volto della lentezza o, paradossalmente, della troppa rapidità. Due estremi che si toccano. Reggio Calabria, dove l'arretrato giudiziario convive con sentenze "esemplari", è emblema di un sistema che non sa più bilanciare rigore e garanzie.
Il caso Stasi è paradigmatico. Un cambio repentino di rotta, una condanna definitiva e l'arresto fulmineo, come se la giustizia volesse far vedere i muscoli, più che applicare la legge con prudenza. Ma il pericolo non è Stasi. Il pericolo siamo noi. Perché ogni volta che lo Stato sbaglia, apre una crepa nella fiducia collettiva.
Il monito di Enzo Biagi
Nel 1983, di fronte all'arresto ingiusto di Tortora, Enzo Biagi scrisse al Presidente Pertini:
«Non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino... Vicende come questa possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura.»
Oggi, più di quarant'anni dopo, quella paura è ancora attuale. Lo sanno bene i cittadini di Reggio, che assistono impotenti a processi inquinati, sentenze frettolose, condanne poi ribaltate. La verità ha bisogno di tempo, non di clamore.
Conclusione
La giustizia non può essere né vendetta né spettacolo. Se la sua missione è tutelare tutti, allora il dubbio deve rimanere sacro. Perché oggi è toccato a Stasi, ieri a Tortora, domani... a chi?
Nel frattempo, da Reggio Calabria – dove le toghe sembrano girare troppo in fretta e troppo spesso a vuoto – si alza un grido silenzioso: fermatevi un attimo, ascoltate, verificate. Perché un errore giudiziario non è solo un inciampo del sistema. È un fallimento dello Stato.
Rubrica a cura della redazione di 'U Riggitanu – Osservatorio Civile sulla Giustizia
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